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Pubblicata la sentenza sui fronteggiamenti del luglio 2018. Ecco il primo commento di Roberto Martinelli

FRONTEGGIAMENTI: L’ATTUALE GIURISPRUDENZA NON DA’ ALCUNA SPERANZA

        Le ultime sentenze sui fronteggiamenti, compresa l’ultima sui fronteggiamenti del 2018 (che già pesante per le condanne inflitte si dice lo sia, pesante e dura,  anche nelle motivazioni), mi sembra pongano tutte in evidenza una stessa caratteristica - e lo dico con rispetto, ma anche con convinzione - : essere redatte da giudici che non conoscono Siena e la sua gente, e che tanto meno riconoscono le particolarità e  l’unicità del fenomeno Palio. Anzi: leggendo le sentenze, i giudici sembrano andare sempre più in avanti nella loro dura logica, sempre più distanti dalla realtà senese, chiusi e protetti nella loro verità giuridica. “I fatti sono quelli “ - dicono -  “le norme sono quelle”. E non c’è barba di relazioni storiche e antropologiche i cui risultati vengano presi in una qualche considerazione, non ci sono testimonianze che possano infrangere la loro rigidità.

Il fatto è che detti giudici sono ora a Siena, domani saranno in altri luoghi. Quindi non c’è tempo (e forse, dico forse, neppure la voglia) per approfondire la conoscenza del mondo del Palio. Mancando il tempo potrebbe in parte ovviarsi con la sensibilità: ma neppure questa troviamo negli atti giudiziari. “Li chiamate fronteggiamenti – dicono sostanzialmente rivolgendosi ai contradaioli e ai loro difensori - , ma sono solo delle risse punibili ai sensi del codice penale: e le norme le applicano con severità, come le avranno applicate altrove in passato e come, se del caso, le applicheranno in futuro. Una logica oggettiva, qualunque sia il tempo e il luogo: ma per questo una logica fuorviante per l’assenza di una qualunque distinzione o specificità.

E’ certo che noi contrade, noi contradaioli dobbiamo fare un’analisi della situazione alla luce delle mutate sensibilità e dei mutati modi di pensare. Ma se persiste immutata quella logica asettica, formale e lontana, dal buco in cui ci stanno facendo scivolare non ne usciamo. Di fronte ad un qualunque fronteggiamento, anche il più innocuo, ci sarà sempre un giudice che invocherà la rissa, quand’anche non la resistenza a pubblico ufficiale, ancorché assolutamente passiva, nei confronti dei Vigili Urbani.  

Il punto è che sino a non molto tempo fa la situazione era completamente diversa. I “fatti” erano più o meno gli stessi, ma le istituzioni pubbliche, pur nel rispetto della legge, li guardavano e li valutavano, per quanto possibile, nel loro aspetto sostanziale. Anche la giurisprudenza non mancava di evidenziarne le risonanze tradizionali e rituali.  Ed è per questo che, riemerse dall’oblio dopo tanto tempo, riporto di seguito le riflessioni di un giudice del Tribunale di Siena che conosceva il Palio e la sua importanza non solo nell’ambito del “gioco” ma anche in quello “sociale e collettivo”; ove la “competitività” insita nel Palio viene definita “positiva” e si riconosce come la struttura delle contrade abbia favorito a Siena l’aggregazione e la solidarietà. E’ una voce chiara, che dice le cose come stanno anche quando non sono positive, ma che parla sapendo di cosa sta parlando. Ed è di un qualche conforto ascoltarla.

 COME UN GIUDICE DEL TRIBUNALE DI SIENA, IN UNA SENTENZA DEL 1993, AVEVA CORRETTAMENTE  INQUADRATO I FRONTEGGIAMENTI IN PIAZZA DEL CAMPO

         Quello che riporto di seguito è quanto si legge nella motivazione di una sentenza emessa dal Tribunale di Siena nel 1993 e che mi è tornata tra le mani solo poco tempo fa scartabellando tra vecchi documenti. Delle riflessioni del giudice di allora avevo perso ogni memoria per un  motivo semplice: erano riflessioni all’epoca condivise da parte di contrade e istituzioni, comunemente diffuse e date in sostanza per scontate. In altre parole non rappresentavano una novità. Oggi che invece la giurisprudenza segue una strada diversa, meno consapevole e meno partecipata ai fatti, le riflessioni del giudice del 1993 appaiono in una nuova luce.

 

Il giudice inizia il suo ragionamento con queste riflessioni di carattere generale.

“Dai mass media ci pervengono ogni giorni messaggi contrastanti: da un lato opere che esaltano la violenza più cruda; dall’altro gli esponenti della cultura dominante ci bombardano di messaggi tesi a valorizzare la concordia e il compromesso, a deprecare qualsiasi tipo di competitività. […] essi trascurano peraltro di considerare che tutti gli aspetti del comportamento umano debbono essere accettati almeno come dati di fatto ineliminabili, anche quando alcuni di essi siano ritenuto in contrasto con i valori etici dominanti. E’ indubbio che oggi la sicurezza e la concordia costituiscono valori da tutelare e da promuovere, ma è anche vero che talora le esigenze della vita, le necessità di autotutela, la determinazione a far valere interessi ed ideologie, spingono taluni ad agire in modo non allineato ai valori dominanti. E ciò non sempre può essere bollato come disvalore etico, perché il progredire (se non addirittura il progresso) dell’umanità passano anche attraverso il rischio e la competizione. Se si trascura di considerare ciò, e si attuano modelli sociali che escludono la competizione […] si ottengono effetti devastanti.” […]

“I giovani vengono posti in una situazione di impotenza di fronte alla mancanza di spazi per far valere la loro personalità e capacità: Ecco allora che gli insoddisfatti più estroversi sfogano i loro istinti competitivi per futili motivi ( come negli stadi o nelle gare del dopo discoteca o addirittura dedicandosi al crimine), mentre i più introversi sfogano il loro odio verso la società su se stessi, anche mediante l’uso degli stupefacenti. In Italia sono venuti a contrastare tali tendenze l’impegni politico e poi l’impegno sociale di gran parte dei giovani.”

A Siena, in particolare,  la struttura delle contrade ha favorito l’aggregazione e la solidarietà, contro l’isolamento e il rifiuto verso la società. Ma alla tradizione contradaiola e paliesca non è estranea una forte tendenza alla competitività, che talora si manifesta sotto forma di episodi violenti, sia pure circoscritti nel tempo e nelle occasioni. Si tratta di violenze limitate a piccoli episodi del dopo Palio, spontanee perché non organizzate né premeditate, dirette verso fantini traditori o avversari scorretti, ma soprattutto limitate e quasi regolamentate dalla tradizione. Spesso si tratta di confronti tra gruppi di contradaioli, in cui più che vera violenza si ha esibizione di spirito combattivo, quasi un rito di iniziazione per i più giovani, e una affermazione di vitalità per i meno giovani: e in cui gli sporadici atti di vera violenza sono quasi forzati dalle circostanze e mai voluti con vera cattiveria. La tradizione permette tali sfoghi quasi rituali da cui non derivano rancori duraturi, ma spesso addirittura il rafforzamento di amicizie e legami”.

A questo punto il giudice precisa che “ovviamente, trattandosi alla fin fine di reati, non può affermarsi che si tratti di comportamenti positivi”, ma al tempo stesso riconosce che “è un dato di fatto che tali illeciti penali non giungono, di norma, alla cognizione delle autorità, proprio perché la tradizione cittadina non li riconosce per tali: e per questo, e non già per un malinteso senso di omertà, li nasconde”.

Il giudice conclude questa parte della motivazione osservando che “la competitività  insita nel Palio è di per sé fortemente positiva, anche se purtroppo è a volte travalicata in episodi delittuosi ben più gravi di quelli tradizionalmente accettati dal popolo delle contrade e che sono doverosamente giunti alla cognizione della giustizia”. E da qui inizia l’analisi dei fatti portati al suo esame, fatti  peraltro verificatisi “non” in Piazza del Campo.
 

***

 Mi sembra di poter dire che le argomentazioni del giudice del 1993 su quelli che oggi indichiamo come “fronteggiamenti” di contradaioli “in” Piazza del Campo conservano una loro attuale validità: e soprattutto si contrappongono per molti aspetti all’’attuale giurisprudenza negativa rappresentata dalle sentenze di condanna per i fronteggiamenti del 2015 e del 2018.

Lascio ovviamente ai nostri validi professionisti, che stanno conducendo con abilità e sensibilità la difesa dei contradaioli, la competente valutazione della sentenza del 1993. Da parte mia mi permetto solo alcune brevi personali riflessioni.

(1)   Il giudice del 1993 ha descritto con esattezza (avendo evidente precisa conoscenza della fenomenologia dei fatti in esame) la caratteristiche dei fronteggiamenti nonostante avesse cognizione che l’episodio sotto giudizio era di natura e gravità totalmente differenti. La descrizione conferma la validità delle impostazioni difensive svolte sul punto nei vari  processi, ma con il maggior peso di una ricostruzione non di parte ma proveniente da un organo giudicante.

(2)   Il giudice del 1993 ha precisato che “ovviamente, trattandosi alla fin fine di reati, non può affermarsi che si tratti di comportamenti positivi”: comprensibile prudenza professionale e espositiva. Da notare comunque l’espressione usata alla fin fine, come dire (tirando un po’ il ragionamento e semplicizzando il linguaggio) ‘ se proprio lo si vuole, e non sempre ma solo in certi casi, siamo di fronte all’esistenza di reati proprio al limite, ove la rissa può anche esserci ma non è grave, e anche il pericolo sociale può esserci ma non è grave.  E al tempo stesso il magistrato non manca di riconoscere che “è un dato di fatto che tali illeciti penali non giungono, di norma, alla cognizione delle autorità, proprio perché la tradizione cittadina non li riconosce per tali: e per questo, e non per un malinteso senso di omertà, li nasconde… [trattasi di] sfoghi quasi rituali da cui non derivano rancori duraturi, ma spesso addirittura rafforzamento di amicizie e legami”.

Da quanto sopra si capisce perché fino ai tempi recenti quasi mai (salvo quindi episodi particolari) è stata promossa l’azione penale per fronteggiamenti in Piazza del Campo, diversamente dalla severa e mal posta fiscalità di oggi.

(3)   Il giudice del 1993 ha valutato che la ‘competitività’ nel Palio “è di per sé fortemente positiva” e che a Siena la struttura della Contrade ha favorito l’aggregazione e la solidarietà. Aspetto questo verso il quale nei giudizi sui fronteggiamenti i giudici di oggi hanno espressamente mostrato una chiusura. Un esempio personale: nell’ultimo giudizio (fronteggiamenti 2018) sono stato chiamato come testimone e quando l’avv. De Mossi provò a formularmi una domanda su questo aspetto il giudice lo stoppò dicendo “no, no, ora veramente c’è un limite a tutto, questa non è ammessa”.

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            Con l’espressione “ci sarà pure un giudice a Berlino” si vuol dire che si troverà pure un giudice che alla fine farà giustizia. Ovvio: l‘espressone è di significato troppo ampio e complesso per poterla puramente e semplicemente riferire al nostro problema. Però ci sia permesso parafrasarla: “ci sarà pure un giudice a Siena” (… oltre quello del 1993) che riuscirà a superare la pur problematica apparenza dei fatti e valutarne di conseguenza la sostanziale correttezza? E prima ancora: ci sarà un giudice che, di fronte ad un fronteggiamento, provi ad intenderne origini e natura, e quindi  concluda di non dover promuovere sempre e comunque, l’azione penale? Utopia? Una battaglia contro i mulini a vento? Non lo so. Certo è che qualcosa andrà pensata e qualche iniziativa intrapresa, se non vogliamo essere sopraffatti (come abbiamo avuto occasione di dire in altra occasione) da questa sensazione di negatività, quasi di impotenza, che ci intristisce.                                                                                            

Roberto Martinelli

3 giugno 2025